Esiste sempre un motivo nel presente per andare indietro a guardare il passato. In questo caso, Bruce Springsteen, che finalmente ha capito che i suoi fan avrebbero speso vagonate di soldi per acquistare i bootleg ufficiali dei suoi concerti e ha iniziato a metterli sul mercato sulla scia di altri nomi come Pearl Jam.
Proprio questa settimana è stato rilasciato uno show dalla tournée di “Devils and Dust”, una fase della sua carriera che ancora non era stata tirata fuori dagli archivi. Si tratta del concerto tenuto in luglio a Columbus, nell’Ohio, durante l’ultima leg del tour.
Mi ha risvegliato tanti ricordi, l’ascolto di questo concerto. In Italia era arrivato a giugno, se non vado errato, i biglietti erano usciti qualche mese prima e mi ero trovato a passare la notte fuori dal negozio di dischi più vicino, nei tempi in cui i biglietti li prendevi già su Ticketone ma i punti di rivendita avevano ancora i tagliandi fisici per cui se arrivavi sufficientemente in tempo ce la facevi. Certo, quando un artista di quel calibro suonava nei palazzetti dovevi portarti dietro il sacco a pelo e un libro per passare il tempo, ma la sicurezza che si prova una volta arrivati per tempo in coda, sapendo che il biglietto per te ci sarà, è abbastanza impagabile.
Ero andato a Milano e a Bologna, Roma era troppo distante da fare, sopratutto in settimana. Poi è andata bene, alla fine la setlist della capitale è risultata la meno interessante delle tre.
La cosa interessante, per uno che aveva scoperto Bruce Springsteen da quattro anni scarsi, era che ci sarebbe stato un altro tour acustico in solitaria, dopo quello, leggendario, del 1995.
La sostanza, però, si sarebbe rivelata totalmente diversa: quello di “The Ghost of Tom Joad” era un concerto essenzialmente folk, dove Bruce si accompagnava quasi soltanto alla chitarra e suonava solamente quei pezzi che potevano incastrarsi con gli episodi narrativi e intimisti del suo nuovo disco. Inoltre, era lo Springsteen separatosi dalla E Street Band, che con “Human Touch” e “Lucky Town” aveva sperimentato nuovi suoni e nuovi musicisti.
Il repertorio da eseguire dal vivo era stato ristretto parecchio, “Tracks” non era ancora uscito, i ripescaggi assurdi e le setlist diverse di sera in sera sarebbero arrivati solo dal 1999 in avanti, quando la Reunion era già diventata fatto concreto.
Ragion per cui i concerti del biennio ’95-96 furono musicalmente impeccabili ma poco variati e alla fin fine un po’ pesanti da ascoltare.
Quelli di dieci anni dopo furono, se vogliamo, una cosa completamente diversa: “Devils and Dust” fu un disco a tratti molto ispirato ma che per il resto soffriva un po’ di stanchezza. Non era nemmeno proprio del tutto acustico, c’era un po’ più di varietà negli arrangiamenti, batteria, piano, tastiera erano molto più presenti nei vari brani, che per il resto si sganciavano quasi del tutto dalla dimensione folk: fatta eccezione per “The Hitter” (che guarda caso era nata durante le session di Tom Joad) e forse per “Matamoros Banks”, il resto dei pezzi avrebbero tranquillamente essere suonati in chiave rock senza snaturarli, come in effetti si vide l’anno successivo, in occasione dei concerti fatti con la Seeger Sessions Band.
Lo spettacolo ricalcava quel che si era sentito su disco: uno Springsteen in solitaria, diviso equamente tra chitarra, pianoforte e organo elettrico. Uso discreto di basi e giri campionati, una selezione di circa 25 pezzi a serata, pescati a piene mani da tutto il repertorio, non solo da quei brani che potevano essere valorizzati soltanto in chiave acustica. Fatta eccezione per gli inni rock “Badlands” e “Born to Run” e per le hit danzereccie come “Dancing in the Dark” e “Hungry Heart”, il resto è stato eseguito senza troppi problemi, tanto che alla fine, se non vado errato, furono circa 150 i brani proposti in quel tour.
Con delle autentiche gemme nascoste, tra l’altro, molto di più che nei tour full band: tra le cose più assurde, proprio il concerto appena uscito in cd, si apre con una “Lift Me Up” che Bruce stesso dice di non avere mai eseguito dal vivo e poi, poco più avanti, propone “When You’re Alone” e “Valentine’s Day”, due brani da “Tunnel of Love” che si erano sentiti rarissimamente anche durante il tour di quel disco.
Per non parlare poi di “Cynthia”, oscura outtake recuperata da “Tracks”. O di “Iceman”, sempre da “Tracks”, suonata da qualche altra parte in America in quello stesso periodo.
Per quanto mi riguarda, vidi due concerti bellissimi. Ero reduce da tre show del The Rising Tour e devo dire che l’energia della band mi mancava ma avevo anche voglia di gustarmi Bruce in una dimensione diversa dove, io maniaco delle scalette, sapevo che avrei potuto soddisfare la mia voglia di rarità.
Da quel punto di vista me ne andai contento: a Bologna ci furono “State Trooper” e “My Father’s House” (ho ripetuto per anni che solo per quest’ultima valeva la pena spendere i soldi del biglietto), a Milano arrivò “Wreck on the Highway” ma soprattutto riuscii ad ascoltare per la prima volta “Lost in the Flood”, uno dei miei pezzi preferiti in assoluto, suonato in una versione da brividi al pianoforte. Il mese dopo la suonò anche in Ohio, e riascoltando quell’esecuzione in macchina l’altro giorno, è stato inevitabile pensare a quel giorno di giugno, l’unica volta probabilmente che ascoltando una canzone dal vivo, pensai con tristezza: “sta per finire” una volta iniziata l’ultima strofa.
Comunque, sempre l’ascolto del bootleg ufficiale, mi ha fatto realizzare qualcosa che all’epoca, perso com’ero nell’eccitazione di quei due concerti, non avevo realizzato: in quel tour, Bruce Springsteen aveva semplicemente voglia di fare un po’ di casino da solo, dopo due tour consecutivi con i suoi compagni d’avventura. Non c’era l’urgenza di comunicare un messaggio, come era avvenuto dieci anni prima; c’erano le canzoni del nuovo album, certamente e, almeno nelle prime due leg del tour, queste occupavano uno spazio non indifferente all’interno del concerto. Ma “Devils and Dust” non aveva la forza di “The Ghost of Tom Joad”, non era neppure così omogeneo come stile è idea di fondo. Di conseguenza, ogni data di quel concerto era sempre e comunque una festa, nonostante non ci fosse la E Street Band a sottolineare certi momenti. Certo, c’era spazio per l’ascolto e per la riflessione su tematiche importanti: “Matamoros Banks” che evocava le migliaia di messicani morti ogni anno nel tentativo di passare illegalmente il confine con gli Stati Uniti, veniva ascoltata sempre in religioso silenzio. E l’inizio con “My Beautiful Reward”, canzone che per almeno due mesi aprì quasi ogni data, ancora adesso la considero come uno dei momenti musicalmente più alti a cui abbia mai assistito durante venti e passa anni di concerti. Una dimostrazione lampante del fatto che non serve suonare “bene” per forza: quando sei in possesso di quel carisma lì, basta sedersi al piano elettrico e strimpellare due accordi, per riuscire a stregare un’intera arena.
Però, dall’altra parte, non rinunciava a classici recenti come “The Rising” o “Lonesome Day”, che certamente nessuno si sarebbe aspettato di sentire in acustico e che, detto fra noi, neppure erano così tanto entusiasmanti in quelle nuove versioni. Ad ogni modo, così come riusciva a ipnotizzare quindicimila persone con una “The River” al piano, riusciva anche a farle alzare tutte quante a ballare come pazze, strimpellando con l’acustica gli accordi di “Ramrod” e “Open All Night”.
Ecco, magari quando ascolti un concerto del genere seduto alla scrivania con le cuffie nelle orecchie, certe cose viene naturale saltarle. Ma quando ero lì, queste differenze tra i vari momenti e queste sbavature, non le avevo proprio notate. Un buon segno, di sicuro: è stato un tour unico nel suo genere, e adesso, a dieci anni di distanza e con i piani per il futuro ancora nebulosi, sarebbe bello rivederlo da solo sul palco.
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