Sappiamo tutti com’è andata la prevendita del concerto milanese di Bruce Springsteen in programma il prossimo 3 luglio allo stadio di San Siro. Biglietti per il prato bruciati in pochi minuti, tutto il rimanente sparito nel giro di qualche giorno. All’alba di giovedì 11 febbraio, quando anche i punti vendita “fisici” hanno potuto avere a disposizione i preziosi tagliandi, era già tutto sparito e ci sono state diverse testimonianze di gente che, dopo tre o quattro ore di coda e pur non avendo nessuno in attesa davanti a sé, si è sentita rispondere che di biglietti non ce n’erano più.
Ma non sono qui per parlare di questo. Dei magheggi di Ticketone, della probabilissima connivenza coi bagarini legalizzati dei circuiti elettronici, del suo modo totalmente arbitrario di gestire la disponibilità dei biglietti, adesso non mi interessa discutere.
Quel che mi sta a cuore davvero sono una serie di considerazioni di altro tipo, che sono certo non piaceranno a nessuno ma che comunque sento il fortissimo bisogno di fare.
Punto primo. La prima volta che Bruce Springsteen venne a San Siro (la prima dopo la data storica del 1985, ovviamente) era il giugno del 2003 e prendere i biglietti fu una cosa al limite del ridicolo. Era marzo, forse aprile, le prevendite erano aperte almeno da un paio di mesi, io stavo frequentando l’ultimo anno di università per cui ero a Milano tutti i giorni. Entrai nel Virgin Megastore di piazza Duomo (oggi ovviamente sparito dalla circolazione) e comprai il mio buon biglietto. Erano ancora i tempi del posto unico, tu compravi e andavi dove volevi, ovviamente pagando la stessa cifra (incredibile a dirsi, c’era gente che si segregava volontariamente sulle gradinate più lontane). Già, pare una cosa incredibile da dire oggi, ma i biglietti divisi per settore sono un’invenzione (lucrativa) molto recente, almeno per quanto riguarda stadi e palazzetti.
Comunque, se non ricordo male, quel concerto non andò esaurito se non, forse, negli ultimissimi giorni o addirittura il giorno stesso. E si parlò di 60mila spettatori, nei servizi televisivi il giorno dopo l’evento.
Nel 2008 le cose furono altrettanto facili, sebbene fossero già stati introdotti i prezzi diversificati. Talmente facili che un mio amico, che aveva un biglietto in più per il prato, non riuscì a piazzarlo a nessuno e dovette venderlo a metà prezzo ai bagarini. Per il prato, capite? Quello stesso settore che adesso è stato polverizzato in cinque secondi, con tanti che hanno dubitato che sia mai stato messo in vendita. Bene, nel 2008 il prato lo compravi quando volevi e non sembrava essere il disperato oggetto del desiderio che è oggi.
Qualche difficoltà in più la si è avuta nel 2012 e nel 2013: prati esauriti quasi subito ma anche qui, se si era sul pezzo nel momento dell’apertura delle vendite, era impossibile rimanere fuori.
Nel 2013, però, quando arrivai alle cinque del mattino davanti allo stadio, pronto per fare la coda di accesso al pit, mi resi conto che ormai Springsteen era diventato una moda.
Quella volta rischiai seriamente di rimanere fuori e mi ero presentato almeno tre ore prima dell’anno precedente. Cosa stava succedendo?
Semplice, la nascita di un nuovo evento chiamato “Springsteenasansiro”. Già, non un normale concerto di quello che è uno dei più grandi performer della storia del rock, ma “Springsteenasansiro”, un evento in cui le persone che stanno sul palco sono indissolubilmente legate al posto in cui suonano e dove il famoso pit era ormai diventato rinomato quanto il privé di una discoteca.
Sarà il fascino sempiterno della “Scala del calcio”, sarà il ricordo della prima data italiana del Boss nel 1985, sarà l’altrettanto leggendario acquazzone che rese epico lo show del 2003, sarà che Bruce Springsteen dopo “The Rising” ha, molto banalmente, acquistato più fan rispetto al decennio precedente, fatto sta che ormai “Springsteenasansiro” era diventato un qualcosa di molto ma molto più imprescindibile e alla moda del semplice “Springsteen in concerto in Italia”.
Già, perché se nel 2012 e nel 2013 trovare un biglietto per Milano era possibile a patto che non si indugiasse troppo, nelle altre città italiane la situazione era ben diversa.
Ricordo il concerto di Udine del 2009: prato molto lontano dalla capienza massima, pit semivuoto nel quale entrai presentandomi alle tre del pomeriggio, tantissimi croati a fare numero. Ma persino Padova 2013: il concerto della riproposizione integrale di “Born to Run” fu snobbato da tantissima gente, i biglietti furono venduti con lentezza e per tutto il tempo quello fu considerato uno show di seconda categoria, un semplice antipasto dell’autentica serata di celebrazione che sarebbe avvenuta al Meazza.
Ora, San Siro sarà anche un bello stadio, ma per il calcio, non certo per la musica. L’acustica è orrenda e le continue lamentele del comitato residenti hanno fatto sì che per molto tempo i volumi fossero tenuti ben al di sotto della soglia media di decenza.
Ci si va per fare i fighi, punto. Ci si va per dire di esserci andati, per farsi un selfie sotto al palco o per farsi immortalare dall’amico mentre si canta “Waitin’ On a Sunny Day”.
Oppure, caso perfettamente ragionevole, ci si va perché è la città più vicina a dove si vive e non si hanno soldi per farsi le trasferte oppure perché si vogliono fare le trasferte ma comunque si abita vicino a Milano e sarebbe assurdo non andare anche lì.
Queste cose vanno bene ma per favore, che nessuno dica che si va a San Siro perché a San Siro è meglio. È un luogo affascinante, certo, negli anni ci ha regalato degli show fenomenali, ognuno per motivi diversi. Ma Bruce dà il meglio dappertutto e fa cose meravigliose ovunque. E soprattutto a volte suona anche in posti dove i suoni e i volumi sono adeguati a quelli di un professionista.
Di conseguenza, dietro tutta questa assurda mania di San Siro, dietro al sold out in due giorni della data di luglio, e di contro ad un Circo Massimo ancora ben lungi dall’essere riempito, la considerazione è una sola: a trionfare è stato, ancora una volta, “Springsteenasansiro”. Bruce Springsteen non è un evento in senso lato, lo è solo se suona lì. Non prendiamoci in giro: dove si è mai visto che un artista faccia un sold out istantaneo in una città mentre fa fatica a vendere i biglietti in un’altra?
E ammettendo anche che ci siano logiche di bagarinaggio con la complicità di Ticketone, tese a creare la sindrome della “caccia al biglietto”, quella caccia la si vuole creare solo e soltanto a Milano.
Il che mi porta a fare un’ulteriore considerazione. I concerti negli stadi fanno cagare. E vorrei spingermi anche oltre: il vero appassionato di musica, se è un vero appassionato di musica, dovrebbe odiare profondamente i concerti negli stadi. Negli stadi non si va per ascoltare musica, si va per partecipare ad un rito. Un gigantesco rito di catarsi collettiva dove si salta, si balla, si suda, si canta, dove si sta insieme per qualche ora a vivere delle stesse emozioni, riempiendosi di esse nel tentativo di rendere la vita più bella e, in qualche caso, sopportabile.
Che è una cosa bella, da un certo punto di vista, e che ha anche molto a che fare con l’essenza del rock and roll, così come è nato ormai sessanta anni fa.
Ecco, però nel corso degli anni questa cosa un po’ è cambiata. Nel senso che gli smartphone, i Social e questa maledetta ossessione dell’essere sempre connessi, hanno trasformato il concerto negli stadi in un evento a cui far sapere a tutti di stare prendendo parte.
Si va a San Siro perché fa figo dire di essere stati a San Siro, non certo perché siamo fan di un artista che, guarda caso, a questo giro passa proprio di lì.
Ne consegue che il 70% del pubblico medio di un concerto a San Siro (forse anche l’80 o addirittura il 90%) rientra nella categoria che io chiamo del “pubblico casuale”: non veri fan dell’artista, che ne conoscono la discografia, l’evoluzione della carriera, che sanno esprimere giudizi ponderati su ogni singolo disco, che hanno in mente più o meno tutte le canzoni, ecc.
Al contrario, si tratta di persone che sanno chi sia l’artista in questione, che ne hanno sentito qualche pezzo in radio, che magari possiedono anche uno o due cd, che amano alla follia due o tre canzoni e che colgono l’occasione di andare a vederlo in quel grande stadio perché trovano irresistibile l’idea di partecipare ad un evento, irresistibile l’idea di farsi trasportare da quella canzone, cantarla a squarciagola e magari anche commuoversi fino alle lacrime.
Oppure, caso peggiore, di quell’artista non sanno niente di niente: vogliono semplicemente andare a far casino a San Siro e arricchire poi il loro profilo con le foto della magica serata.
Ecco, ai concerti di Springsteen, soprattutto le ultime due volte, io ho visto un sacco di gente così. Anche a quello dei Pearl Jam nel 2014, se per questo, e sono sicuro che da Jovanotti, dai Modà e da Tiziano Ferro sia molto ma molto peggio, ma siccome non li seguo, evito di parlarne.
Questa gente, scusate se lo dico in modo brutale, dovrebbe starsene a casa. Un concerto è anche il prodotto della sinergia che si crea tra l’artista e il suo pubblico e questa sinergia non può crearsi se il pubblico si comporta in maniera sbagliata.
E il pubblico casuale, bisogna ammetterlo, è distratto e poco educato all’ascolto, si esalta nei momenti più istintivi per poi ripiombare nella chiusura del suo microcosmo personale. Lo spettatore casuale non ha assolutamente la preparazione necessaria per ascoltare una band suonare per un’ora e mezza o addirittura tre ore di fila, nel caso della E Street Band. Nei momenti in cui non succede nulla che lui possa capire (leggi, quando ci sono pezzi che non conosce, quando ci sono cose più riflessive, per nulla ballabili), va a finire che chiacchiera con gli amici, guarda il cellulare e fa di tutto tranne che seguire quello che succede sul palco.
Tutto questo, ovviamente, distrae gli ascoltatori e contribuisce a rovinare l’atmosfera del concerto. Tornando a Springsteen, San Siro 2013, da questo punto di vista, è risultato pesantemente compromesso: complice anche una scaletta che sembrava fatta apposta per esaltare l’istintività più banale, ne sono venute fuori tre ore e mezza di karaoke scatenato che hanno sicuramente soddisfatto la voglia di divertirsi da parte dei più giovani e anche dei fan più preparati che non disdegnavano un rock and roll senza compromessi, ma che sono sembrate alquanto deludenti per chi (come il sottoscritto) sognava la riproposizione di qualche chicca per intenditori in più.
La riprova che la maggior parte dei presenti quella sera era lì soprattutto per sfogarsi, la si è avuta nella risposta alle uniche due canzoni piuttosto inusuali della setlist: “Atlantic City” e l’outtake “Loose Ends” hanno ammazzato quasi completamente il clima dando l’impressione che pochi, veramente pochi, le conoscessero.
Pensate quello che volete, ma a me queste cose danno fastidio. Da un concerto di Springsteen mi aspetto i classici ma con uno che ha il repertorio che ha, è lecito sempre sperare in qualche regalo per i fan storici. Ultimamente, a San Siro certe cose han latitato. Ma forse, più semplicemente, è che Bruce, quando il pubblico è caldo, preferisce farlo muovere. Ne è riprova che, negli ultimi tour, le cose più particolari sono state riservate a paesi come Germania, Finlandia o Svezia, dove il clima è notoriamente più freddo e rilassato. O forse, più semplicemente, non c’è nessun criterio e sono io che mi faccio solo assurdi film mentali.
Fatto sta che io gli stadi li abolirei. Ma probabilmente non sono gli stadi il problema. Il problema,  è brutto dirlo, è che il pubblico andrebbe selezionato. O comunque avvertito, educato, preparato. Dopotutto nella musica classica ci sono tutta una serie di comportamenti da rispettare: vietato applaudire prima della fine di un pezzo, sacrilego farlo tra un movimento e l’altro di una sinfonia o di un concerto. Si viene fulminati se si scambiano due parole col vicino, guardati male anche al più piccolo colpo di tosse o starnuto. Per non parlare poi dell’alzarsi in piedi per andare a prendersi una birra (vogliamo parlare del via vai che c’è ad un concerto rock, durante i pezzi maggiormente d’ascolto e d’atmosfera?). Ecco, io credo che sarebbe ora di inserire una sorta di codice di comportamento anche per i concerti rock. L’istintività e l’energia di certi avvenimenti non possono essere presi come  giustificazione per fare quel che si vuole.
E purtroppo, più un artista diventa grande, più attira quel pubblico casuale che non solo capisce poco di musica ma che (questo è il problema principale) non vuole affatto capirne. E il loro rifiuto categorico a lasciarsi provocare dal luogo in cui si è, la loro presunzione nel pensare che il loro modo di comportarsi sia giusto e anche l’unico possibile, rovina immancabilmente l’atmosfera di uno spettacolo che, al di là dell’indubbio elemento spettacolare, ha in sé una componente musicale che non può assolutamente essere trascurata.
Si dice spesso che l’arte debba essere per tutti e di tutti e soprattutto in questi tempi, si è ostili ad ogni sorta di chiusura elitaria e intellettualoide. Con le cose che mi piacciono e che penso di conoscere bene, sono parecchio snob, lo ammetto. E non nascondo che, se dipendesse da me, all’ingresso dei concerti di Bruce Springsteen si verrebbe sottoposti a precisi test di idoneità per sondare il livello di conoscenza della materia da parte dell’aspirante spettatore.
Ma so benissimo che tutto questo è esagerato. So benissimo che questo snobismo è un problema mio e cerco in tutti i modi di combatterlo e di evitare che si manifesti nel rapporto con le altre persone.
Lo dico magari storcendo il naso, ma io credo fermamente che l’arte, e quindi anche la musica rock, debba essere di tutti. La fruizione dell’arte è un diritto, certo, ma implica anche dei doveri. E in questo caso il dovere principale è di avere la disponibilità necessaria a farsi educare, a lavorare sui propri gusti e sui canoni estetici, ad acquisire una competenza nel repertorio degli artisti che si vogliono seguire, a comprendere che quando si va ad una mostra di quadri o ad un concerto, ci sono delle norme da rispettare e non si può sempre fare quel che si vuole.
Ecco, io penso che anche a San Siro, che sia prato o terzo anello, bisognerebbe acquisire una maggiore coscienza del luogo in cui si è.
E magari (altra questione ma direttamente collegata a questa) cominciare a rendersi conto che Bruce Springsteen è grandissimo, ma che ci sono centinaia e centinaia di altri artisti che stanno al suo livello o quasi. Che il mondo del rock (americano o meno) è sconfinato e non può affatto essere limitato al cantante che tu veneri, anche giustamente. Perché lo dico sinceramente (e poi mi fermo, giuro) è davvero triste constatare come Springsteen riempia gli stadi in tutta Italia e gente come Tom Petty, John Mellencamp o Jackson Browne (giusto per citare i più famosi) passino molto sporadicamente da noi e ogni volta fatichino a raggranellare qualche migliaio di persone.
Ecco, questa è la prova più grande che siamo ignoranti, che siamo ineducati, che ci muoviamo unicamente per moda: Tom Petty non ha nulla di meno di Bruce Springsteen, nulla. Se anche lui non riempie San Siro è solamente perché il 70% degli italiani che vanno a vedere Bruce sono troppo pigri per avere voglia di scoprire che c’è dell’altro, oltre a lui.
Quindi, lamentiamoci pure dei prezzi, di Ticketone, dei bagarini, ma il vero problema dell’Italia musicale è questo, poche storie. Cerchiamo seriamente di risolvere questo e poi forse anche il resto cambierà.
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