Sono contento che Dario Brunori, con la sua Brunori Sas, sia tornato a quella musica spontanea, accattivante e nello stesso tempo profondamente intelligente, che aveva realizzato coi primi due dischi. Oddio, ad essere sinceri la spontaneità, nel nuovo “A Casa tutto bene”, è stata in gran parte sostituita da arrangiamenti ricchi e complessi, con un lavoro di produzione da parte del solito Taketo Gohara, che è risultato molto più efficace e vincente rispetto al disco precedente.

Brunori mi è piaciuto da subito: il suo esordio “Vol. 1” mi aveva colpito per il modo semplice eppure efficacissimo con cui scriveva canzoni, riallacciandosi alla migliore tradizione del cantautorato nostrano, quello più da schitarrata sulla spiaggia (nel booklet c’erano pure gli accordi delle canzoni) che da riflessioni intellettuali. Un po’ Rino Gaetano (il nome più tirato in ballo dalla critica), un po’ Luca Carboni, un po’ Lucio Dalla, le nove canzoni di quel disco si dipanavano senza troppe pretese, offrendo una narrazione autobiografica a metà strada tra il disincanto e l’ironia, con un potenziale commerciale assolutamente dirompente.

Stessa formula, solo un po’ più curata musicalmente, per il successivo “Vol. 2: Poveri cristi”, un passo avanti di maturazione, ma più nel vestito che nella formula.

Strofa ritornello, tre accordi e via. Questo è Dario Brunori. Ricetta efficace con pochi ingredienti, ma quanto ci sarebbe voluto perché risultasse stantia? In effetti ricordo bene che, dopo aver ascoltato le cose che aveva scritto per “È nata un star”, il film di Lucio Pellegrini tratto dal romanzo di Nick Hornby, me lo ero proprio detto. Ero stato a vederlo al Tambourine di Seregno, in un concerto in solitaria che mi era piaciuto moltissimo, nonostante avessi corso il rischio di addormentarmi a più riprese (credo fossi appena tornato da una gita di classe coi miei studenti. Certe cose sono decisamente distruttive, alla mia età).

Quella sera ascoltai diverse canzoni di quella colonna sonora, che all’epoca era appena uscita (ci credete che non mi ricordo affatto che anno fosse? Probabilmente il 2012) e poi la comprai dopo il concerto.

A parte “Amore con riserva”, che rimane uno dei miei pezzi preferiti suoi, il resto era semplicemente la solita roba, fatta un po’ meno bene del solito.

“Sta esaurendo le cartucce – ricordo che dissi tra me e me – non durerà a lungo”. Effettivamente, il terzo disco “Vol. 3: Il cammino di Santiago in taxi” mi è piaciuto pochissimo. Qui Taketo Gohara, chiamato per la prima volta alla produzione, ha fatto (giustamente, credo) il tentativo di arricchire le canzoni con arrangiamenti più ricchi e sofisticati, aggiungendo per esempio molto più pianoforte, tastiera, archi e fiati. Cose che c’erano già prima (soprattutto dal vivo) ma che in questa sede hanno probabilmente “laccato” e ingabbiato un po’ troppo i pezzi.

Un disco troppo prodotto, troppo “fighetto” nel suo modo di suonare. Ma forse questo era un dettaglio di contorno, perché il vero problema stava nel fatto che le canzoni erano tutte piuttosto bruttine.

Sì lo so, la gente, la maggior parte della gente, ha scoperto Brunori con questo disco. Lo so, “Kurt Cobain” è ormai un suo manifesto, un suo brano simbolo. A me “Kurt Cobain” non ha mai detto nulla. Musicalmente scipita, poco interessante anche dal punto di vista lirico, con una malinconica riflessione sul rapporto tra fama e vita, però piuttosto trita e ritrita.

Pochi sussulti, in quel disco, poca roba che si salvava. Saltai la leg invernale del tour e lo vidi per la prima volta al Miami, dove lui e la band si esibirono quasi da headliner. Fu un bel concerto, tutto sommato. Dal vivo quei pezzi funzionavano decisamente meglio.

Ero comunque abbastanza sicuro che da lì in avanti non lo avrei più seguito. Al di là della normale gelosia che si prova nel vedere che un artista che tu segui dall’inizio è ora di pubblico dominio, non pensavo proprio che sarebbe riuscito a trovare l’ispirazione per tornare a livelli di scrittura eccellenti.

E invece ci è riuscito. “A Casa tutto bene” (che abbandona finalmente dicitura “vol.”) è un disco bellissimo: da una parte il magistrale lavoro di arrangiamento, questa volta davvero al servizio dei brani; dall’altra parte, i brani stessi. Lo stile è sempre quello ma c’è stato un deciso passo avanti, una maggiore maturità, una voglia di esplorare nuove atmosfere, di confrontarsi con altri territori.

Non è un disco facile (non tutto funziona al primo ascolto) ma è nel complesso il suo più vario, il suo più ricco, musicalmente parlando.

E poi ci sono i testi. Già, perché Dario è sempre stato intelligente e per nulla banale, nell’esprimere il suo pensiero. Ha sempre detto cose interessanti e non lo ha mai fatto in modo scontato (oddio, forse nel precedente si è un po’ ripetuto, ma il livello rimaneva buono).

A questo giro, secondo me, si è superato. Credo che il punto fondamentale di queste canzoni, stia nel fatto che riescono a fare piazza pulita di tutto quel politically correct e di quei luoghi comuni che ci portiamo addosso, di quelle maschere dietro cui ci nascondiamo per cercare di apparire “sani”, di quelle finte certezze che ci ripetiamo come un mantra ma che, in realtà, non servono ad illuminare il nostro cammino.

“La verità è che ti fa paura l’idea di scomparire, l’idea che tutto quello a cui ti aggrappi prima o poi dovrà finire.”. Lo sappiamo tutti, in fondo in fondo, che è così. Ma in quanti hanno il coraggio di dircelo apertamente in faccia. Perché se “parti per scalare le montagne ma poi ti fermi al primo ristorante e non ci pensi più” non è per nessun altra ragione se non per il fatto che si ha paura, si ha paura della fine, dell’ignoto, ed è molto meglio rifugiarsi dietro certezze surrogate ma rassicuranti.

Come il razzismo, ad esempio. L’odio del diverso che nasconde in realtà solo la paura di non essere adeguati e si riversa quindi tutto addosso all’altro, che proprio perché è altro da me, necessita fatica, sacrificio e disponibilità, per poter essere capito, incontrato. Ma il senso di inadeguatezza spazza via tutto questo e finiamo, inevitabilmente, per odiare, per respingere.

Però proprio qui sta la genialità di una canzone, “L’uomo nero”, che al di là della vivacità dell’incedere ritmico, troppo velocemente avevo liquidato come una pletora di luoghi comuni del peggior antifascismo (perché mica tutto l’antifascismo è nobile, sapete?): dalla seconda strofa in avanti comincia ad ammettere che forse, sotto sotto, l’uomo nero ce l’abbiamo dentro tutti, che è inutile rassicurarci, ripeterci che siamo migliori, perché non è vero.

Oppure il sesso. In “Sabato bestiale” fa il verso a Concato e dice che sì, possiamo avere come unico desiderio quello di trovare “una femmina da castigare”, per dimenticare che la vita è drammatica e che prima o poi ci presenterà il conto. Mi ha ricordato molto un dialogo del film “L’età barbarica” di Denys Arcand che bene o male diceva quelle cose lì ma senza la benché minima traccia di ironia.

In “Secondo me” fa a pezzi l’idea del parlare per luoghi comuni, del fatto che tutti abbiamo un’idea del mondo che difendiamo con le unghie e con i denti, senza preoccuparci minimamente di verificare se sia vera o no (“Secondo me non è che devi esagerare con la lotta al capitale, ogni tanto ci puoi andare pure al centro commerciale e lo so che è disgustoso, disonesto e criminale ma di estate si sta freschi e puoi sempre parcheggiare.”).

E nella breve “Il costume da torero”, sorta di filastrocca simpatica per far divertire i bambini che però racchiude una tristezza molto poco mascherata, si destreggia tra la visione negativa del mondo e quella più solare ed ottimista, concludendo che, probabilmente, entrambe sono indispensabili per garantirci un equilibrio (“Non sarò mai abbastanza cinico da smettere di credere che il mondo possa essere migliore di com’è. Ma non sarò neanche tanto stupido da credere che il mondo possa crescere se non parto da me.”).

C’è un altro brano che mi ha colpito molto ed è “Canzone contro la paura”, che era uscita come secondo singolo, suonata in anteprima nel corso di un servizio di Sky a lui dedicato.

Mi ha colpito il discorso metapoetico che ci sta dietro: è una canzone costruita sul crescendo, che inizia come una ballata colloquiale e si trasforma in un pezzo da stadio dove il verso “Come se cinquemila voci diventassero una sola” rappresenta il momento più alto del climax emozionale.

Ma non è un brano concepito per le esibizioni live (anche se funziona piuttosto bene in quella sede). Si tratta del tentativo di esprimere la propria opinione su un argomento che prima o poi tutti, musicisti o no, ci troviamo ad affrontare: le canzoni salvano davvero la vita oppure no? E quando si scrive una canzone, è giusto porsi come obiettivo proprio quello di salvare la vita, oppure, piuttosto, bisogna mirare più in basso, essere poco pretenziosi, accontentarsi solo di far divertire?

La risposta, per quello che ho capito, è semplice: tutte le canzoni, in un modo o nell’altro, sono un qualcosa di più di un mero intrattenimento.

Il discrimine, mi sembra di capire, sta in noi che ascoltiamo: che cosa veramente ci aspettiamo da una canzone? Che cosa veramente abbiamo voglia che ci dica?

E qui, finalmente, arriviamo al concerto. Perché dopo un disco così bello, avevo voglia di vedere che cosa sarebbe successo dal vivo. Per cui mi sono comprato per tempo il mio biglietto per l’Alcatraz, prima che il tanto annunciato sold out si verificasse.

La Brunori Sas l’ho vista tante volte, a partire dal primo disco, quando non eravamo ancora in tantissimi sotto al palco e un’esplosione di pubblico così poteva solo essere vagheggiata, non certo prevista con sicurezza.

A Milano, tre anni fa, ci fu sempre un sold out all’Alcatraz (io non ero andato, all’ultimo momento mi fu negato l’accredito e i biglietti erano già finiti) ma si trattava della formula a capienza ridotta, quella col palco montato sul lato largo. Questa volta siamo a pieno regime e si sta parecchio stretti, abbastanza per morire di caldo in maglietta.

Non c’è dubbio, Dario e la sua band sono esplosi. Magari non come i TheGiornalisti o Lo Stato Sociale, che a questo giro hanno deciso di provare a riempire il Forum di Assago (bisogna poi vedere se ci riusciranno) ma di sicuro in maniera molto più meritata.

Pubblico giovanissimo, tanti universitari, tanti liceali, ma anche una fan base solida e numerosa, che lo segue dagli inizi e lo conosce bene. Non siamo ad un concerto di una Next Big Thing, per dire. Quando le prime parole di “Come stai” (assieme a “Guardia 82” il pezzo più vecchio incluso in scaletta) risuonano nell’aria, è tutto un coro pazzesco, a testimonianza del fatto che anche chi lo ha scoperto di recente, è andato a recuperarsi con pazienza e dedizione tutti i dischi.

Bel clima, quindi. Forse un filino troppo caciarone e sentimentale, troppi urli fuori posto e troppi telefonini (ma qui ormai non è una novità). Però c’è stata un’atmosfera bella calda per tutta l’ora e mezza abbondante che è durato. E anche Niccolò Carnesi, che ha aperto con un breve ma bellissimo set in solitaria, è stato accolto con calore e affetto, ed erano in tanti che sembravano conoscere i suoi pezzi. Per me che sono uno che ama trattare male il pubblico, molti buoni motivi per stare zitto. No, questa volta il “pubblico casuale” da me tanto condannato non c’era. Inutile dire che ne sono stato molto contento.

Purtroppo il concerto non è stato così bello come mi aspettavo. È stato uno show intenso, quello sì. Si è basato su una scaletta equilibrata dove il nuovo disco ha fatto ovviamente la parte del leone, ma dove gli altri tre sono stati rappresentati con equilibrio (forse un paio di pezzi in più dal primo non avrebbero guastato). Eppure, mi sono trovato spesso fuori posto, straniato, poco coinvolto. Ho ascoltato tutto ma ho partecipato poco e i momenti in cui me lo sono goduto, in cui mi sono davvero divertito, sono stati pochi.

Il perché di tutto questo? Innanzitutto quello che mi è sempre piaciuto della Brunori Sas è che dal vivo è spontanea, divertente e coinvolgente. Si ha sempre l’impressione di assistere ad una festa tra amici, o di guardare uno showcase nel salotto di casa.

Questa volta, sarà stata l’importanza dell’occasione, della venue, ma Dario soprattutto mi è parso piuttosto contratto, direi quasi inibito. Ha suonato bene, ha fatto il suo, ha dispensato qualcuno dei suoi soliti divertentissimi sketch, ma nel complesso è apparso poco spontaneo e molto preoccupato di non sbagliare. Ci sta, è l’inizio del tour e le aspettative sono altissime, molto più alte che in passato. È normale che uno si senta nervoso.

Piuttosto, il problema principale è stata la resa sonora: il concerto si è aperto coi primi sei pezzi del nuovo disco (la prima metà), suonati in ordine di tracklist. Ottima scelta, a mio parere, peccato solo che il risultato sia stato ai limiti dell’imbarazzante: suono confuso e impastato, con basso e batteria ad emergere eccessivamente e a coprire il tutto. Batteria che aveva oltretutto un fastidioso suono ridondante e “anni ’80” (troppi trigger?) che spesso e volentieri risultava fuori luogo.

Della parte “armonica” dei pezzi si è potuto avvertire solo un pastone generale, vanificando così del tutto la presenza di fiati e archi, mai così inudibili in passato (in particolare i fiati, mai pervenuti).

Ora, la domanda è lecita: di chi è la colpa? Dei fonici che non hanno saputo fare un buon lavoro in sede di soundcheck (perché in vent’anni che vado all’Alcatraz, ho visto diversi concerti impeccabili dal punto di vista sonoro) oppure della band stessa, che non ha saputo trovare una soluzione efficace per presentare i nuovi brani dal vivo?

Io credo che, come spesso accade, la verità stia nel mezzo. Da una parte è senza dubbio vero che i volumi erano settati male. La preponderanza di basso e batteria non si può spiegare altrimenti, così come la quasi totale inutilità delle seconde voci di Simona Marrazzo.

Dall’altra parte però, è innegabile che a questo giro ci sia stata una inspiegabile volontà da parte dei nostri, di sovraccaricare tutto con una dose eccessiva di tastiere, synth ed elettronica, che hanno totalmente messo in secondo piano l’ossatura acustica che è sempre stata tipica di ogni show di Brunori. Questi strumenti c’erano (lo stesso Dario ha suonato la chitarra per tutto il concerto) ma sono stati surclassati da un tappeto spesso volentieri fastidioso ed uniformante.

Questo è andato in parte ad inficiare i pezzi vecchi (vedi “Rosa” che è stata talmente tanto caricata di influenze Dance che il pubblico si è trovato spiazzato), che hanno funzionato bene proprio nel momento in cui, paradossalmente, lo spettro sonoro si è ridotto.

Aggiungiamo anche qualche errore grossolano di troppo (Dario che su “Il costume da torero” quasi non azzecca una nota, un inedito campionamento su “Kurt Cobain” che è stato lasciato anche sul primo ritornello, mandando il tutto fuori tempo, la batteria che ha perso qualche attacco in un paio di occasioni) e avremo il quadro di una serata che non sarà propriamente da mandare ai posteri.

Non fraintendetemi: l’insieme è stato gradevole e tutti si sono divertiti quindi non direi che nessuno ci ha capito niente. Sicuramente però tante cose non sono andate per il verso giusto e tante sono ancora da sistemare, in vista di un tour che, immagino, avrà occasione di protrarsi a lungo.

Per il resto, potrebbe anche aver giocato, nel mio caso per lo meno, il fatto di non aver accettato pienamente il cambiamento: i primi concerti di Brunori erano più ruspanti, meno sofisticati. C’erano poche pretese e ci si divertiva di più, si badava all’essenziale cercando comunque di godersela e di suonare bene.

Adesso forse ci sono più pressioni, i posti sono più grandi e il vestito della band ha bisogno di adeguarsi a questi cambiamenti. È una nuova fase e come tale va accettata; dopotutto, questa volta lasciatemelo dire, il successo di pubblico non è immeritato, non arriva nel momento del declino artistico (cosa che è successa ai Coldplay, per fare un nome grosso o a I Cani, per rimanere in Italia).

È un successo che premia un artista che ha sempre lavorato sodo e che, cosa più importante, ha davvero qualche cosa da dire, oltre al fatto che riesce a dirlo meglio di molti altri.

Tutto il resto, probabilmente, sono chiacchiere inutili.