Siamo più o meno alla fine del set principale, poco prima dei bis. Thom Yorke rimane per qualche istante solo sul palco, con la chitarra acustica. Ci vuole sempre qualche secondo, tra un brano e l’altro, per permettere ai sei musicisti di cambiare assetto in vista di ciò che andranno a suonare. Nel frattempo, il pubblico rumoreggia, ride, si scambia qualche commento su ciò che è stato appena eseguito. Improvvisamente, in sordina, a volume quasi impercettibile, gli accordi iniziai di “Exit Music (For a Film)” si diffondono nell’aria. Alle grida di sorpresa ed entusiasmo si sostituiscono immediatamente le esortazioni a fare silenzio. Non ci ho creduto neppure un istante che sarebbe successo. Invece, come se fosse la cosa più normale del mondo, i sessantamila di Monza si sono zittiti. Completamente. E la voce sussurrata e sofferente ha iniziato ad intonare: “Wake from your sleep…” e così via.Il silenzio irreale è proseguito anche nei secondi successivi, man mano che il pezzo andava avanti e gli strumenti si aggiungevano. Un trattenere il fiato, un frammento di sospensione mentre Romeo parla alla sua Giulietta e le dice che sì, forse ci potrebbe essere una speranza per loro. Poi, altrettanto improvvisamente (ma lo sapevamo tutti che sarebbe successo), il basso distorto arriva a turbare la pace sognante in cui il pezzo sembrava immerso. Un rumore fastidioso che va a coprire la celestialità della melodia e ci ricorda che non ci sarà nessun lieto fine, che la storia di questi due giovanissimi amanti è destinata a spegnersi nella morte.
“You can laugh, a spineless laugh…” canta Thom e adesso il pezzo è diventato sottilmente inquietante, un incubo dal quale sembra impossibile svegliarsi. Ma il pubblico percepisce la tensione, conosce quel cambio di atmosfera e adesso ha smesso di stare in silenzio, ha alzato le mani e ha iniziato ad accompagnare con la sua voce quella del cantante. Così, fino all’esplosione finale.
“And now we are one in everlasting peace…” è un urlo liberatorio che sessantamila voci intonano tutte insieme, gridando, un’esplosione quasi gioiosa, che raggiunge il suo picco e si spegne, così come era iniziata, quando anche la canzone si spegne, su quel “We hope that you choke” che è ancora cantato col solo accompagnamento dell’acustica.
Parla di morte, questo pezzo. È l’espressione di quello che la tragedia di Shakespeare ha provocato nella mente di Thom Yorke, quando ancora bambino ne guardava l’adattamento cinematografico di Zeffirelli e piangeva a dirotto perché non capiva come potesse essere possibile che i due non decidessero di fuggire per sempre, che rimanessero a Verona pur sapendo che vi avrebbero trovato la morte. È una canzone di una bellezza commovente, probabilmente tra le dieci più belle che i Radiohead abbiano mai composto. Ma è una canzone funerea, tragica, una canzone che contempla la fine con delicata disperazione, senza rimpianti ma senza per questo renderla più sopportabile.
Eppure, questa sera, nell’afa monzese appena mitigata da una brezza leggera, “Exit Music” è divenuta quasi un inno liberatorio. La gente che l’ha ascoltata ipnotizzata all’inizio e si è poi lasciata andare alla fine, non pareva per nulla consapevole del suo messaggio reale, delle circostanze che l’hanno portata a vedere la luce. Ne ha goduto come si gode una cosa bellissima che durerà poco e che va per questo assaporata ad ogni istante. Ne ha goduto come il grande classico che è, tassello imprescindibile di uno dei più bei dischi degli anni Novanta e senza pochi dubbi, anche dell’intera storia del rock. Ne ha compreso il valore, in poche parole, anche se non ne ha compreso (o non ne ha voluto comprendere) il messaggio di fondo.
E così a Monza, durante la seconda tappa italiana del nuovo tour europeo dei Radiohead, il secondo dopo l’uscita del nuovo album, il primo nel nostro paese da cinque anni a questa parte, abbiamo assistito nuovamente (e questa volta anche con forza inusitata) a quel miracolo per cui le canzoni, tutte le canzoni, nascono in un certo modo ma poi diventano di tutti, non appartengono più per forza di cose a chi scrive. È un fenomeno vecchio come l’arte, ma ogni volta che mi capita di osservarlo in prima persona, non posso evitare di rimanerne incantato.
E così sono andato con la memoria a quella sera di nove anni fa, sempre a giugno, all’Arena Civica di Milano, durante il mio secondo concerto dei Radiohead. Era il 2008, tour di “In Rainbows”. Anche allora arrivò “Exit Music”, anche allora, ricordo piuttosto bene, il pubblico reagì in quel modo. Quella volta un po’ mi infastidii. A Verona, nel 2001, alla mia prima volta con la band di Oxford, l’avevo cantata dall’inizio alla fine quasi con le lacrime agli occhi, non credendo al fatto di poterla veramente sentire dal vivo (era il tour di “Kid A”, le scalette erano pesantemente incentrate su quel disco e sui brani, ancora inediti, che sarebbero poi finiti su “Amnesiac”.). Mi ero poi reso conto che forse non era stato il caso e così, la seconda volta, avevo cercato di immedesimarmi in ciò che diceva la canzone, rimanendo in silenzio, al massimo sussurrando le parole.
Ma non deve per forza essere così. Non deve per forza riaccadere ogni volta allo stesso modo. La vita non è una successione di istanti che si ripetono sempre uguali. Il bello della vita è che ogni istante, ogni esperienza, quando riaccade, lo fa in modo diverso, prende ciò che ha attorno, le persone che sono lì a contemplarlo, con le loro attese e i loro desideri, e da tutto questo viene reso nuovo.
Così sarebbe ridicolo pensare che Thom Yorke debba salire sul palco tutte le sere e cantare di Romeo e Giulietta piangendone la morte come se fosse la prima volta. È bello che quel brano, ogni volta che viene eseguito, significhi per ciascuno dei presenti una cosa diversa. La verifica della verità dell’esperienza sta in quel silenzio iniziale. Non si può restare in silenzio se non di fronte a qualcosa che ci travalica completamente, sia bello o brutto; ad un qualcosa che ci sorpassa, che ci incanta, che ci rende piccoli di fronte alla sua grandezza.
Non è accaduto molto diversamente poco più avanti, quasi alla fine, al termine della prima sezione di bis, quando la band si è tuffata in “Fake Plastic Trees”, che non sentivo da quella lontana sera di Verona e che ad ogni loro concerto avevo atteso invano. Sentirli cantare di un uomo di plastica, di una ragazza di plastica, della nostalgia per una vita vera, una vita dove poter essere amati per quello che si è, dove poter amare l’altro per quello che realmente è, con quel “If I could be who you wanted” ripetuto come un mantra, come una preghiera. Mi sono commosso, per un breve istante. Ma non era solo per quello, non era per quel testo così struggente, con quella domanda così vera. Era soprattutto, e l’ho realizzato, per quel frammento di bellezza vera, totale, che quella canzone rappresenta e che ha sempre rappresentato. Una canzone che, narrano le cronache, lo stesso Thom Yorke non ha potuto registrare (nella versione che poi è finita sul loro secondo disco) senza scoppiare in lacrime alla fine, incapace di reggere oltre tutto quel carico emotivo.
A Monza è stata un’esecuzione sublime, leggermente più tirata del solito, con la chitarra di Jonny Greenwood a ricamare fraseggi di sorprendente e meravigliosa aggressività, che non stonavano minimamente col pathos della canzone.
Al termine, un rapido scambio di battute con uno degli amici con cui ero lì, che mi ricordava il debito che quella canzone ha col songwriting di Jeff Buckley. E chissà cosa sarebbe successo, ha aggiunto, se lui non fosse morto così presto. Ma “Fake Plastic Trees”, quasi da sola, ha cambiato la storia della ballata rock a metà degli anni ’90, al punto che non esiste nessun pezzo, composto dopo il ’95, che non ne sia stato in qualche modo influenzato. Mentre la canto ho in mente, più o meno, tutto questo, ma ho in mente anche, lo percepisco chiaramente, che la musica dal vivo ti dà soprattutto la possibilità di entrare in contatto con questa bellezza qui e che non tutti gli artisti sono in grado di evocarla allo stesso modo.
È stato così per le due ore abbondanti di questo concerto dei Radiohead a Monza. Ma lo è stato anche durante il set di Michael Kiwanuka, voce meravigliosa e brani a cavallo tra Ben Harper e i Pink Floyd (sì, le due cose convivevano anche senza troppi problemi), che non conoscevo e che mi ha conquistato pienamente. È stato così quando è arrivato James Blake, che invece seguo e amo tantissimo, che ha suonato per un’oretta scarsa con un’intensità e un timbro di voce ai limiti dell’umano, fondendo l’elettronica con la semplice ballata Soul piano e voce, un connubio che già sui dischi è meraviglioso e che dal vivo acquista una bellezza del tutto nuova. Lo abbiamo visto alla luce del sole, in mezzo a gente che, pur non conoscendolo, si è fermata ad ascoltare. Vorrà pur dire qualcosa.
E così, di bellezza in bellezza, con un breve minuto di silenzio per ricordarci della clamorosa figuraccia rimediata dagli Ex-Otago (senza rancore, ci mancherebbe; ma se questi sono tra le band rock più amate dalle nostre parti, abbiamo davvero un problema serio), per il modo imbarazzante e pressapochista con cui hanno calcato il palco, sono arrivati anche gli headliner della giornata.
Che, ancora una volta, hanno dispensato bellezza a piene mani. Perché i Radiohead sono così. Esiste tutto un gruppo di persone che li snobba, che li considera noiosi, incomprensibili, sopravvalutati. Che si ostina a pensare che siano un grande bluff. I gusti sono da rispettare, sempre. La loro musica non è mai stata facile, “Ok Computer” è un disco per palati fini, al netto di due o tre singoli orecchiabili, ma da “Kid A” in avanti hanno imboccato un sentiero impervio, dove occorre pazienza, preparazione e dedizione, per poterlo davvero percorrere con loro.
Dall’altra parte, tanti li incensano, pochi Ii capiscono davvero e verrebbe da pensare, cinicamente, che dei sessantamila presenti (ma davvero, voi ve la ricordate tutta questa gente in Italia per un loro concerto?) un buon 80% fosse lì per “Creep” e “Karma Police”.
Non importa. Tutti questi illazioni svaniscono nel momento in cui salgono sul palco. Perché il modo in cui controllano la situazione è come sempre strabiliante. Il modo in cui ogni brano è pensato nei minimi dettagli, dai continui cambi di assetto (il solo Jonny Greenwood passa più volte dalla tastiera, alla chitarra, alla loop station, anche nel corso dello stesso pezzo), alle decine di strati sonori differenti. Il modo, poi, in cui spaziano nel loro repertorio, dai brani sostanzialmente elettrici di “Ok Computer” alle sperimentazioni elettroniche di “Kid A” (“The National Anthem” e “Idioteque” come sempre hanno trasformato la venue in un Dancefloor), passando per le affascinanti complessità di “In Rainbows” e “King of Limbs”. È con questi due dischi che, a mio parere, la band di Oxford si è trasformata nella straordinaria macchina compositiva ed esecutiva che possiamo ammirare oggi, un gruppo che ha fatto dell’eccezionalità una norma quotidiana. Già, perché se l’importanza storica di “Ok Computer” e di “Kid A” non può essere discussa, ascoltare dal vivo le affascinanti progressioni di “Bodysnatchers” e “Weird Fishes”, il delicato incedere di “All I Need”, l’arpeggio al limite della perfezione di “Nude” o ancora l’abbagliante poesia di “Reckoner” (nel disco rischi di perdertela ma quando la senti così, isolata dal suo contesto originario, fa venire i brividi) e il modo straordinario con cui è stata reinventata “Bloom”, con le due batterie e le percussioni a creare un gioco ritmico ipnotizzante. Sono questi i momenti più evidenti dove si è capito per l’ennesima volta che questa band sta su un altro pianeta rispetto a tutti gli altri.
Ma in realtà potremmo citare ognuno dei 25 pezzi che abbiamo ascoltato e il discorso non sarebbe molto diverso. L’ho sempre detto: ognuno avrà il suo disco preferito ma questo è un gruppo che non si è quasi mai ripetuto o adagiato sugli allori. Prendete l’ultimo “A Moon Shaped Pool”: è passato un anno, ne suonano solamente quattro brani, l’anno scorso comunque non erano mai più di cinque o sei a concerto. È evidente che per loro portarlo dal vivo non è stata una così grande priorità, rispetto ai due precedenti. Eppure, di fronte al crescendo di “Full Stop” o all’incedere quasi sudamericano di “The Numbers”, non si può non rimanere incantati e ammettere che ancora una volta hanno fatto centro, dal punto squisitamente musicale.
Quindi, poi alla fine glielo puoi pure perdonare, di aver suonato una “Creep” francamente superflua, che è sparita con imbarazzante vergogna, di fronte all’enormità di quanto era stato messo sul piatto prima. Eppure quelle pennate rumorose di Jonny, poco prima del ritornello, quelle pennate che, secondo una leggenda metropolitana molto in voga, sarebbero state frutto di un semplice errore e poi lasciate nel mix finale, in qualche modo ci hanno riconciliato con l’esistenza. Perché è stato evidente una volta di più (lo avevo già scritto parlando del concerto dello scorso anno a Barcellona) che ormai la band ha fatto pace con questa canzone, al punto che la possono suonare prendendosi beatamente per il culo. Così come ci siamo presi per il culo noi, mentre la cantavamo a squarciagola, accanto a tanti altri che forse pensavano ancora di essere negli anni Novanta.
E possiamo pure lasciar passare il tremendo finale di “Karma Police”, con un Thom Yorke da qualche anno perfettamente a suo agio nella parte del gigione (le sue frasi in italiano, tra le altre cose, mi hanno fatto letteralmente accapponare la pelle) che fa cantare a tutto il pubblico “For a minute there I lost myself” e il pubblico risponde sguaiato, come se si fosse a un concerto di Vasco. Ok, non è la prima volta che lo fa; ok ho appena fatto tutto il discorso sulle canzoni che le vivi sempre in modo diverso, eccetera. Però, perdonatemi, una scena così non sono riuscito a reggerla, pur avendola peraltro già vista altre volte.
Abbiamo perdonato altre cose, tornando a casa. Per esempio i settemila chilometri a piedi dall’ingresso del parco al palco, che hanno di fatto ridicolizzato la distanza percorsa dopo avere parcheggiato. O la coda infinita per defluire, o i maledettissimi token che dovevi usare per mangiare, utile espediente, non fosse che il cambio mimimo consentito era di 15 euro. O tutta la gente che è venuta per aggiornare il proprio profilo Instagram, che peraltro io non ho subito così tanto, visto che ero vicino al palco e mi hanno detto che la maggior parte stava dietro. O il fatto che i Pumarosa, per questa approssimazione tutta italiana per cui “agli eventi così la gente viene solo per l’ultimo gruppo quindi chissenefrega degli altri”, sono stati cancellati senza neppure uno straccio di comunicati ufficiali.
Abbiamo perdonato tutto questo, in fondo. Perché quando vedi un concerto così, quando sei al cospetto di una band così, che fa un concerto così, tutto il resto non conta nulla. Perché la bellezza parla una lingua universale e tutti la possono capire.
Il blog è morto!?!?
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